Da qualche anno a questa parte, di tanto in tanto, il male di vivere entra strisciando nelle mie stanze. Non è preoccupante e non ci resta per molto tempo: a volte un paio di giorni, una settimana, altre volte solo per qualche ora, dal risveglio in poi. Quando il male mi avvolge, tutto mi sembra perduto. Avverto un pericolo senza nome che incombe su ogni cosa, sento che non sarò più in grado di lavorare. Gli errori del passato, ma anche quelli recenti, mi appaiono come catastrofi annunciate dalle quali ormai non ho più scampo. E ho paura di morire, anzi a volte sono sicuro che ciò accadrà nell’imminenza assoluta. Il respiro si fa corto, il cuore batte a sussulti, il sangue affluisce alla testa pulsando nelle tempie come un tamburo. Quando il male di vivere mi prende, nascondo i suoi sintomi alle persone che mi sono intorno, faccio finta di niente. Ostento il solito sorriso, fingo di stare bene, mi produco in battute di spirito, espongo il vessillo della tranquillità. E’ un problema che mi porto dietro da sempre: sono pronto ad esternare ottimismo e a condividere le buone notizie, ma quando sto male oppure ho dei problemi da risolvere, mi trincero dietro un muro di omertà e segretezza. Come se non potessi mai permettermi di soffrire, soprattutto di chiedere aiuto. Uno strano pudore che ha radici profonde e lontane, che mi ha sempre creato la sgradevole sensazione di mancata sincerità nei confronti di chi mi sta intorno e che, forse, un giorno riuscirò a battezzare col suo vero nome. Ma poi quel male va via così com’è arrivato. Le nubi si diradano, il respiro torna regolare insieme al battito del cuore, il sangue defluisce, liberando le tempie. Me ne tiro fuori da solo, mi aiuta il lavoro, mi aiutano le persone care con la loro presenza, i cani, cucinare, la musica, la lettura. Nessun farmaco, magari a volte una sbronza che funge da tornado per i “mali pensieri”. Ma soprattutto e sempre, mi aiuta il piacere e l’esigenza di scrivere, dove per esigenza intendo le bollette e il mutuo da pagare, visto che non ho altre fonti di reddito se non la tastiera del computer e ciò che riesce a produrre la mia testa imperfetta e mai serena, se non all’apparenza. Comunque è stato proprio in un momento di presenza di quel male, che mi sono ritrovato a fare la fila per richiedere alcune analisi mediche in ospedale. Un girone infernale di persone in attesa, un numeretto tra le mani: il 107. Sul display, in alto, visibile a tutti, l’ultimo numero chiamato: il 52. Mi si prospetta un’attesa infinita e ho dimenticato di portare con me un libro, qualcosa da leggere. Mi appoggio alla parete, ascolto la scarica irregolare dei battiti del cuore. E quella sensazione di non farcela che sembra sempre così reale, ineluttabile. Lei avrà almeno 85 anni, a giudicare dalle rughe sul volto e dalla magrezza delle mani, la pelle sottile che lascia trasparire perfino i capillari. Si appoggia a un bastone ed è proprio al mio fianco. ”Ci sarà da aspettare…” – mi dice. E mi mostra il suo biglietto: ha il 105. Annuisco appena, poi sento il suo profumo che mi ricorda qualcosa. Realizzo: Acqua di Colonia 4711. Il profumo che usava mia nonna paterna. Credevo non fosse più in commercio, invece… La guardo. Mi sorride. ”Quando c’è da spettare io passo il tempo a guardare la bellezza…” – mi dice, senza un motivo. Poi comincia a indicare e illustrare ciò che abbiamo intorno: la chioma di un pino che si intravede da una finestra in fondo alla sala, le scarpe verdi di una bambina che sta dormendo nel passeggino, due donne anziane che si tengono per mano, alcuni volti delle persone presenti, modi di camminare, il sonno di un uomo stravaccato su una sedia. Ammetto di non aver notato nulla, prima che lei mi indicasse cosa guardare. Eppure queste cose le so bene, lo so che la bellezza si annida dovunque e che basta prestare attenzione per scovarla. So che il “gioco” funziona da ancora di salvataggio nei momenti bui, che è una boccata d’aria balsamica. Ma il tutto mi appare come una rivelazione, forse perché proprio in quel momento avevo bisogno di qualcuno che me lo ricordasse. Lei mi guarda di nuovo: “Quando non c’è nulla da guardare, ci sono i ricordi. Quelli belli, ma anche quelli tristi, che a distanza di tempo diventano dolci.” Mi dice proprio così. E anche questo so. E anche stavolta ho la sensazione di averlo dimenticato da sempre. Mi racconta i suoi ricordi, come se ci conoscessimo da sempre. Parla adagio, descrive, si confida. Una vita bellissima e anche dolorosa. Come tutti noi. Nel frattempo, non mi sono reso conto del tempo trascorso. Il display chiama il numero 105 e la donna si allontana dopo avermi fatto un cenno di saluto. La seguo con lo sguardo e scopro che mi piace pensare che mi sia stata mandata di proposito, chissà da chi, chissà da dove. Non ho fatto in tempo a chiederle il suo nome. Cercherò di immaginarlo tra infinite possibilità. Ora so che, quando quella strana paura di non farcela tornerà a farmi visita, avrò anche il ricordo di una donna sconosciuta e della sua pelle sottile che lascia trasparire i capillari a farmi da traino per uscirne fuori. Mancano solo due numeri, poi sarà il mio turno. Nella sala d’attesa, nel frattempo, c’è stato un ricambio di persone. Cerco la bellezza che si annida dentro ciascuno di loro. E stavolta mi dispiace di avere solo due numeretti di tempo per farlo.
Anffas Macerata, con l’aiuto di molti, realizza progetti di vita per i suoi ragazzi e adulti. A volte l’aiuto è il proprio tempo, a volte la propria professionalità, a volte l’amicizia, a volte l’ascolto, a volte l’azione. A volte il sostegno economico. Tutto è un dono.